VIII

Mi sembra infine che la ricostruzione storico-critica di una personalità artistica quale sono venuto delineando, proprio per la sua centrale disposizione a rappresentare e far rivivere l’intera esperienza dello scrittore, la sua tensione fra poetica e poesia, il suo sviluppo di ispirazione costruttiva, permetta, ed anzi richieda, per sue interne esigenze – non per accettazione dall’esterno di procedimenti eterogenei –, tutto un uso attivo ed organico di tecniche critiche, di dimensioni di studio, che, inessenziali ad una critica contenutistica o a posizioni crociane ortodosse, sono ben pertinenti ad una critica che fortemente guarda al lavoro espressivo, al farsi concreto dell’arte nel movimento della personalità artistica verso le sue mète, verso i suoi risultati.

Non si tratta, si badi bene, come potrebbe sembrare ad un lettore frettoloso, di un invito a farsi ecletticamente ora sociologi ora stilisti a seconda delle esigenze del lavoro, ad assumere ecletticamente diversi metodi riconoscendone, se pur parzialmente, la validità unilaterale cosí come essa si presenta in alcuni esempi affermati, come spesso avviene, specie in casi di inesperta disponibilità giovanile o in critici mancanti di una propria direzione sicura.

Si tratta viceversa di articolare un metodo centrale ben saldo nelle sue genuine esigenze e nelle sue prospettive radicali, da cui dipende il senso particolare con cui tecniche usate anche in altri metodi prendono «radicalmente» un valore ed un significato diverso e perdono l’unilateralità e la pretesa di unilaterale esaurienza già da me precedentemente combattuta.

Parlo, ad esempio, degli studi sull’elaborazione, sulle redazioni e varianti di un’opera d’arte. Essi possono ridursi ad esercitazioni diligenti, ma poco produttive quando si appoggino ad una nozione della poesia o come miracolo o come prodotto di solo calcolo tecnicistico. Ma assumono un piú organico e strumentale valore se vengono articolati entro una ricostruzione intera della creazione artistica personale-storica, nelle sue vive scelte, nella sua tensione all’opera, nei suoi problemi tecnici mai dissociati dalla loro funzione di consolidamento ed espressione di un mondo interiore storicamente e personalmente caratterizzato. L’opera stessa sarà ben diversamente intesa, spiegata e valutata e criticamente posseduta se il critico ne avrà ridispiegato la complessa via di formazione e i suoi modi costruttivi, le sue direzioni ed implicazioni generali, rivivendola e valutandola dal suo interno: e rifiutando anche la facile equazione del cammino successivo sempre per forza migliore, considerando anche l’eventualità di cadute e ripiegamenti del poeta, come può essere il caso della variante dei Sepolcri, riportata dal Carrer («vince di mille e mille anni il silenzio»), che, se sicuramente foscoliana, rivelerebbe una resipiscenza timida del Foscolo in direzione di un verisimile ben impoetico di fronte alla forza lirica del verso autentico «vince di mille secoli il silenzio».

Riviste dall’interno di una tensione operante, le stesse varianti coeve di un testo non sono mai equiparabili ad una esterna e indiscriminata scala di possibilità che potrebbe essere aumentata all’infinito secondo un astratto vocabolario di parole e immagini o una tastiera indifferente alla musica che il poeta vuol trarne. Ma sono invece la gamma ben significativa di possibilità sperimentate entro un raggio di scelta inerente alla poetica dello scrittore, provate e dirette nel ricercato accordo con la sua prefigurazione artistica, con i toni del suo animo e della sua ispirazione, e fan cosí parte della storia della sua tensione poetica.

E tanto piú il valore e la pertinenza di un simile studio (che si articola, mai separato, in tutta la ricostruzione dal profondo dei nuclei personali storici fino alla parola conclusa) sarà evidente quando si tratti di redazioni successive inseribili in una storia dinamica del poeta e della sua interna lotta per l’affermazione della sua poesia. Lotta quasi sempre tormentosa e difficile, ché tutta la nostra esperienza ci riconduce ad un senso del poiein artistico assai diverso dalla romantica immagine di una immediatezza di getto, ad un senso diverso della spontaneità come conquista di spontaneità, ricordando in proposito quanto il giovane Leopardi obbiettava ai romantici circa la naturalezza conquistata con lo studio e con l’arte e l’affettazione dello scrivere impreparato e incolto. Né si dimentichi qui, per inciso, come lo sviluppo interno ed espressivo sia proprio della vera poesia e che l’immediatezza dei cosiddetti primitivi o non resiste a una indagine piú profonda o rivela i suoi limiti di monotonia e di rattrappimento, incapace di sviluppo e di storia.

Si riveda, come esempio assai chiaro del valore che possono e debbono prendere gli studi sulla elaborazione di un’opera (magari di un suo particolare) quando sian parte di una ricostruzione storico-critica che coinvolge tutta l’interpretazione dello svolgimento di un poeta nel convergere in lavoro creativo di tutta la sua personalità poetico-storica, il caso dell’ultima battuta di Filippo nell’omonima tragedia alfieriana[1].

Battuta che, pur non rappresentando neppure nella sua stesura definitiva uno dei punti piú alti della matura poesia alfieriana, viene qui scelta per lo spiraglio che apre, nella sua lunga vicenda, su tutto il lavoro espressivo del poeta non solo intorno ad un particolare, ma nel suo svolgimento generale intero e non nella sua semplice revisione tecnica[2].

La battuta passò da una prima intuizione insufficiente e parziale, attraverso una lunga storia di successive redazioni, fino alla sua piú piena realizzazione, nell’edizione definitiva in cui quella prima intuizione è stata approfondita, arricchita, svolta alla luce di tutto il complesso svolgimento della poetica alfieriana in anni decisivi per la maturazione della sua piú grande poesia.

Nella prima idea in francese, nel ’75, il protagonista concludeva la sua azione con l’espressione di un esplicito compiacimento per la vendetta attuata: «Philippe finit en recommandant à Gomez un secret inviolable sur cette affaire, et content d’être vengé», Ma già nella stesura in francese la battuta di Filippo è limitata alla raccomandazione rivolta a Gomez di non far mai trapelare la verità di quel «funeste événement», mentre una battuta di Isabella morente suggeriva già, in forme troppo comuni, una possibilità di sviluppo ulteriore nella figura del tiranno: «Tyran es-tu satisfait? ton fils, ton épouse, ce que tu devois avoir de plus cher périt par ta main, périt à tes yeux, et périt innocent: monstre, tu ne trembles pas?»

Poi, nella stesura italiana, affiora piú decisamente un nuovo atteggiamento di Filippo, preso da un improvviso moto di rimorso e volto a riconoscere sin troppo esplicitamente l’inutilità della sua azione, in senso morale eudemonistico: «Ah Gomez di già i fieri rimorsi mi squarciano a brano a brano, la pace che dai delitti invano sperava mi fugge»: parole intervallate, rispetto all’ultima raccomandazione di segretezza, da un ultimo sfogo di Isabella che invoca dal cielo la vendetta e una pronta morte che la ricongiunga a Carlo.

Ma, a parte questo intreccio di voci di effetto troppo melodrammatico, l’indicazione dei «fieri rimorsi» insisteva eccessivamente su di una coscienza e su di una aperta conversione morale che stonavano con la direzione fondamentale della figura di Filippo tutta impostata su di una estrema lucidità di azione e in una motivazione sin troppo chiara di gelosia.

Non troppo diversamente si articola la battuta della versificazione del ’76, anche se essa porta una notevole unificazione delle due battute di Filippo ed espunge l’improprio intervento di Isabella:

Fieri rimorsi

già mi squarciano a brano a brano il petto.

Ah che purtroppo è ver, che mal s’ottiene

la pace dai delitti! ognor s’asconda

Gomez l’orribil caso: a me l’onore

tu salverai tacendo: a te la vita.

Solo nella redazione del 1780 la battuta finale, appoggiata all’apertura allucinante dell’immagine del «mar di sangue» (con un’espansione metaforica eccessiva che pur voleva contribuire a un essenziale innalzamento di tono), si arricchisce di una prima abbozzata forma dell’interrogativo-vocativo che costituirà lo scatto piú nuovo e coerente della delusione e insoddisfazione di Filippo:

Un mar di sangue

scorre. Ah Filippo vendicato sei,

ma felice sei tu? Gomez l’orrendo

caso ad ogni uom s’asconda: a me l’onore

a te la vita salverai se taci.

E proprio nella redazione seguente del 1781 il gran numero di varianti può indicare l’assillo del poeta circa la piú sicura impostazione dell’interrogativo ormai sentito centrale e a cui egli non riusciva a togliere l’inclinazione troppo familiare, e insieme retorica, della seconda persona e dell’indicazione del proprio nome, e la disposizione piú discorsiva fra la costatazione della vendetta e quella dell’insoddisfazione dolorosa.

Sinché, nella forma dell’edizione Didot (nel volume aggiunto dell’89), tutti gli elementi che da tempo cercavano equilibrio e coerenza vengono ad assumere la loro funzione in un ritmo tragico e desolato, come la figura di Filippo vi trova la sua migliore misura, superando la mostruosità un po’ ingenua dell’inizio e l’indicazione moralistica troppo esplicita successiva, in una enigmaticità paurosa, ma umana, in cui l’impeto dolente dell’insoddisfazione corre a risolvere un esemplare termine del modulo tragico alfieriano senza cadere nella giustapposizione del riconoscimento della giustizia divina del Creonte dell’Antigone, né d’altra parte giungendo alla piú profonda complessità del tiranno vittima nel Saul, di cui pure costituisce un antecedente essenziale nella situazione peculiare della tragedia giovanile:

Scorre di sangue (e di qual sangue!) un rio...

Ecco, piena vendetta orrida ottengo...

Ma, felice son io? Gomez si asconda

l’atroce caso a ogni uomo. A me la fama,

a te se il taci, salverai la vita.

E, pur nei limiti costituzionali della tragedia giovanile, nelle possibilità offerte da quella originaria concezione generale della tragedia, tutto si è sistemato in maniera piú coerente e profonda, dando alla battuta il suo valore piú pieno e maturo.

Ma come intendere e valutare davvero quel risultato ultimo (e insieme capirne i limiti interni), come intenderne la forma di equilibrio alfieriano che vi si traduce (equilibrio sulla tensione e intensificazione dei nuclei interni e del loro consolidamento espressivo di immagini e linguaggio) e insieme intendere e valutare la lunga vicenda poetica che vi confluisce e il senso e l’apporto dei vari passaggi (e il significato delle loro particolari condizioni), senza rifarsi alle ragioni centrali del lavoro alfieriano, non in forma di verifica, ma in forma di collaborazione dell’esame particolare e dell’esame generale? Lavoro poetico che era poi una continua reinterpretazione dei propri fantasmi poetici – non l’immagine che vuol realizzarsi quasi per una propria spinta autonoma e misteriosa, ma la personalità del poeta sempre piú consapevole, potente e matura, ricca di fantasia e di coscienza artistica – e si collega a tutto lo svolgimento alfieriano con le sue nuove esperienze vitali, culturali, artistiche, con la sua conquista lenta e sofferta di uno stile piú maturo che corrisponde a nuove conquiste di una intuizione tragica piú profonda.

Sicché lo stesso modulo dell’interrogativo-vocativo dentro lo sviluppo del dialogo sempre piú esplicito sarà insieme una conquista tecnica della piú matura teatralità alfieriana e il corrispettivo di una profonda maturazione del personaggio (organicamente sviluppata in tutta la tragedia), e dell’intuizione alfieriana tragica legata alla novità di altre opere e all’intreccio fra queste e la reinterpretazione delle prime tragedie. Mentre l’abolizione della seconda persona implica insieme una maggiore sicurezza del gusto che ha avvertito un pericolo retorico, una confidenza e un intenerimento prosastico, e la piú profonda maturazione di un decoro tragico che si fa dignità, di una meditazione concentrata sull’assoluta e sofferta intimità dolorosa del tiranno, il quale scopre, nella sensazione della sua insufficienza, della limitatezza della propria azione, della sua tensione di affermazione e di abnorme felicità, la sua singolare umanità di vittima di un destino che su lui ricade implacabile.

Cosí dunque anche lo studio della elaborazione di un particolare richiederà il ricorso ai motivi centrali e a tutta la storia della personalità poetico-storica creativa. Né basterà spitzerianamente risolvere la circolarità centro-particolare nella generale individuazione dell’etimo spirituale di un’opera, ma occorrerà reinserire il particolare e l’opera in tutto lo svolgimento della personalità creativa e della sua poetica, nell’articolazione delle sue varie fasi e della sua esperienza concreta, nella sua intera realtà poetico-storica. Men tre poi un simile studio dinamico servirà a ricostruire la storia dello svolgimento alfieriano e della sua poesia meglio di quanto potrebbe farsi con le sole opere solo nella loro forma definitiva.

Solo cosí anche lo studio di un particolare di una tragedia alfieriana collaborerà organicamente alla ricostruzione e alla valutazione della singola opera e di tutta la poesia alfieriana e condurrà non alla disgregazione del giudizio e alla semplice «descrizione» del lavoro tecnico del poeta, ma alla realtà e concretezza e duttilità di un giudizio storico-critico che reagisce alla formula unica, alla rigidezza del nucleo immobile, metafisico, e metastorico, contribuendo ad una interpretazione dinamica della personalità artistica fino alle sue estreme realizzazioni. In cui anche l’osservazione del cambiamento e della raggiunta necessità di una parola e magari di una virgola potrà essere criticamente valida ed utile se il critico vi giungerà dal pieno della ricostruzione intera della personalità che anche in quei minimi cambiamenti ha consolidato la propria tensione poetica. Secondo la celebre frase del Foscolo, per cui «ad ogni pensiero ed immagine che il poeta concepisca, ad ogni frase, vocabolo o sillaba ch’ei raccolga, muti e rimuti, esercita a un tratto le facoltà tutte quante dell’uomo»[3].

Ma quella storica frase (che autorizza insieme il senso del fulmineo finale atto totale della poesia) ha per noi il suo senso piú vero (e piú connesso con la stessa esperienza critica e poetica del suo autore) nella direzione, non reversibile per il critico, di un processo di ricostruzione della personalità dell’uomo-poeta confluente integralmente in ogni particolare della sua creazione. E provare concretamente che nel piú minuto lavoro espressivo siano effettivamente (e quando siano) presenti tutte le forze dell’uomo-poeta e non solo quelle dello sperimentatore tecnico e del letterato esperto, e che quelle forze siano orientate ad una mèta poetica sulla forza di una ispirazione e della coscienza artistica, può essere il compito arduo del critico. Il quale solo nella sicurezza della complessità e integralità dell’arte e della critica può assicurare a se stesso la validità di ricerche particolari, della sua attenzione ai «segreti» del lavoro dei poeti, senza rischiare di ridurre essi e se stesso alla dubbia misura di un tecnicismo che alla fine svuota di senso storico e critico le piú utili e utilizzabili tecniche e svaluta le stesse ragioni che rendono utili le tecniche.

Persino la ricerca statistica di parole e di abitudini stilistiche – inaccettabile quando pretenda di risolvere in una descrittiva obbiettiva e matematica la realtà di un’opera d’arte senza considerarne le ragioni interne e storiche e finendo cosí per adeguare indifferentemente autori grandi e piccoli – può rientrare funzionalmente in una ricostruzione unitaria e dinamica della personalità poetica e contribuire a configurare tendenze e momenti della sua poetica e del suo svolgimento (come anche caratteri delle poetiche di epoche e movimenti artistici).

Possiamo cosí usufruire ancora dell’esempio dell’Alfieri, la cui grande poesia è stata tante volte misconosciuta proprio per un’insufficiente comprensione della radicale unità della sua poetica teatrale e dei suoi problemi di stile con la sua intuizione tragica personale-storica e del suo svolgimento potente che ne avvalorano e giustificano le sue diverse possibilità poetiche. Come accade con l’identificazione dell’avverbio «pur troppo», che – ripreso dall’accezione piú comune nel Settecento di «anche troppo» o di esclamazione elegiaco-melodrammatica nell’uso metastasiano – sempre piú si precisa, in Alfieri, nella sua forma sintetica di una dolente e sdegnata costatazione pessimistica di fronte alla realtà storica ed esistenziale. E a un certo punto dello svolgimento alfieriano moltiplica la sua presenza nelle tragedie e negli scritti etico-politici della maturità, fino al caso un po’ ripetitorio e stanco della versione dell’Alceste euripideo (Alceste prima) in cui la sigla del traduttore-rifacitore si identifica spesso con l’esasperante e piú meccanico ritornello dei «pur troppo».

Orbene il rilievo di questa parola “alfieriana” e del suo intensificarsi e farsi centrale di momenti estremi prende valore e si giustifica criticamente se organicamente collegato con tutto lo studio dello svolgimento alfieriano di cui diviene particolare sintomatico ed acuisce l’attenzione sull’interno rapporto fra la maturazione del pessimismo eroico dell’Alfieri e le forme del suo linguaggio eroico-elegiaco-tragico.

Sí che quella parola sintomatica e tematica (in cui convergono tutta la meditazione dolorosa sulla realtà politica e non politica, la lettura approfondita del Machiavelli, l’esperienza sofferta degli anni della lontananza dalla donna amata, tradotta piú direttamente nelle Rime) servirà a meglio render evidente quella maturazione profonda e storico-personale: colta magari piú puntualmente nella revisione dell’inizio del trattato Del principe e delle lettere, iniziato nel ’78 e ripreso e svolto nell’84, tra Saul e Mirra. In questo la drammatica frase d’apertura viene rinnovata e approfondita dall’inserimento parentetico ed esclamativo di un «pur troppo» – «la forza governa il mondo (pur troppo!) e non il sapere» – che, carico di una intensa risonanza personale e storica, spirituale e poetica, scandisce ben diversamente la frase prima costruita in forma di piú compatta sentenza: in analogia con l’approfondimento di certe battute tragiche – prima piú rettilinee e compatte, poi piú movimentate, ed echeggianti della nuova consapevolezza del dramma umano – e con l’approfondimento generale di tutta l’intuizione tragica alfieriana che ha superato ed arricchito il contrasto piú rigido delle prime tragedie e l’impeto piú fiducioso della Tirannide e della Virginia, sino alla nuova complessità del Saul e della Mirra, alla loro coerente novità di linguaggio e di espressione teatrale.

E come davvero intendere i singolari aspetti nuovi del linguaggio e della costruzione della Mirra (prova suprema della poesia dell’Alfieri, estremo sviluppo della sua intuizione tragica, della sua meditazione sulla situazione umana, del suo lavoro espressivo, della sua potente e genuina vocazione ed esperienza teatrale) se non articolando e saldando le osservazioni e costatazioni precisanti e puntualizzanti a tutta una organica interpretazione dell’opera alfieriana e della sua poetica operante in quella situazione creativa concreta, in quel momento di necessità e volontà espressiva?

Cosí l’identificazione di un parlato tragico piú graduato e familiare, della frequenza di forme dubitative e discorsive piú prosastiche (l’abbondanza dei «forse», «chissà», «dunque» «insomma»), prenderà valore e porterà luce critica sol se inserita nelle linee della poetica in cui l’autore ha diretto la sua ispirazione, nei problemi della sua costruzione poetica e del suo linguaggio creativo. E questi richiedevano appunto – recuperando i risultati della discussione alfieriana con il parlato tragico settecentesco nella prova di confronto, assimilazione e superamento con la Merope del Maffei nell’81 – una piú ricca graduazione del dialogo, inerente a un nuovo rapporto fra il personaggio centrale e i personaggi minori, fra realtà comune e realtà tragico-eroica, meno in forme di massiccio contrasto e di stacco statuario, e relativa alla nuova tensione, nel personaggio centrale e nella situazione generale, del motivo tragico: il quale cresce piú lento e graduato sino alla sua accensione piú disperata, in uno scavo piú profondo e in un rifrangersi piú complesso, di cui quelle forme di parlato piú comune e perplesso sono appunto note essenziali, non una stonatura o il documento di una caduta prosastica e di un ripiegamento «borghese».

Come il personaggio e la tragedia di Mirra non sono un indebolimento della forza tragica alfieriana, ma anzi il suo estremo e piú profondo e concreto sviluppo fatto vibrare entro un intreccio piú complesso di innocenza e colpa, di eroismo e pessimismo, di ammirazione e compassione per l’altezza e miseria degli uomini, in un’atmosfera di calda intimità e normalità familiare, fiduciosa e progressivamente turbata e scossa dal dramma tremendo che sorge nel suo seno.

E ugualmente – riprendendo anche l’illustrazione dei vantaggi critici derivanti da uno studio di poetica e di interpretazione dinamica di un’opera nel suo interno movimento e nella sua articolazione, in cui procedimenti tecnici ed espressivi van misurati sulla funzione che il poeta ha loro dato – sarà possibile intendere il significato e il valore vero dei cori della scena prima dell’atto quarto della Mirra sol se si intenderà la volontà operativa del poeta. Il quale, a questo punto di svolta essenziale della tragedia, dove s’infrange la disperata lotta di Mirra per ottenere la morte attraverso le nozze, la partenza per Cipro, l’impossibilità di sopravvivere lontana da Ciniro, sentí il bisogno di creare una eccezionale tensione tragico-teatrale (Alfieri non è un lirico che si esprima malgré lui in schemi teatrali impaccianti, ma un poeta tragico autenticamente bisognoso di espressione teatrale) per cui si serví di quei cori, comunemente considerati come inserimento convenzionale e impoetico di un procedimento teatrale neoclassico e di un linguaggio innografico letterario e fiacco. Mentre essi erano lí collocati affinché, proprio con il loro linguaggio piú convenzionalmente decoroso, creassero come una ossessiva, monotona cupola sonora, una continuità salmodiante sotto cui far risuonare tanto piú struggente e drammatico, da sommesso a lacerante, il crescendo della passione di Mirra sollecitata dalle domande inquiete dei personaggi minori, e dalle immagini compendiosamente evocate dai cori, che, per analogia e per contrasto, la richiamano alla sua situazione e che in tale senso tanto piú funzionano proprio con la loro voce di una umanità rituale e convenzionale, comune e normale, in pace con gli dei e con gli uomini.

Esempio che mostra anche come lo studio della poetica sia essenziale a rompere l’incomprensione, cosí diffusa in zona crociana, per la dimensione teatrale nelle sue particolari esigenze e nelle sue particolari poetiche.

Mentre ancora l’identificazione di certe immagini e parole – «aprir le vele ai venti», la partenza per mare «al mattino» – e della loro frequenza nelle parlate di Mirra, nella prima parte della tragedia, concorrerà, in una interpretazione della tragedia nel suo movimento e nella sua tensione tutt’altro che monotona, a far piú rilevare la ricchezza e la complessità di quello sviluppo, dei suoi modi espressivi, a precisare fasi e momenti della tragedia del personaggio centrale. Il quale, in quelle immagini fantasticate e struggenti, radiose e intimamente funeree, esalta il suo complesso bisogno di illusioni e compensi liberatori. E, mentre persegue l’obbiettivo della morte per dolore, tentando di persuadere con la sua ebbrezza morbosa Pereo alle nozze, trova un assurdo e poetico appagamento nell’allusione di libertà ed evasione di quelle immagini. E la forza allusivo-simbolica di quelle e altre immagini reperibili nel corso della tragedia concorrerà a chiarire, in una tendenza dell’ultima poesia alfieriana ad uno scavo piú profondo nel «cupo ove gli affetti han regno» – in una zona oscura e fermentante di istinti, di volizioni, di immagini, dove si radica la passione contaminatrice, mescolandosi inseparabile con la sorgente piú pura degli affetti –, la nuova forza poetica che ha saputo risolvere fantasticamente la nuova densità e profondità psicologica in modi allusivo-simbolici sempre fortemente caratterizzati e precisati nel loro rapporto interno con i momenti diversi della tragedia. Sicché le nuove immagini – come quelle della sospirata e prefigurata morte per mano del padre – trasferiranno in poesia compensi e aspirazioni dell’eroina ben diversamente intensi di passione e di volontà funebre di quanto non fossero le prime, tanto piú luminose ed aeree.

Insomma studio della elaborazione poetica, attenzione a frequenza di parole e modus dicendi, di immagini e ritmi e forme metriche, a procedimenti particolari di una tecnica speciale (teatrale o narrativa), entrano di pieno diritto in una interpretazione storico-critica di una personalità poetica quando siano saldamente articolati e coordinati in una centrale linea ricostruttiva che ha sempre la sua base fondamentale nella interpretazione della dinamica vita della personalità storico-poetica nella sua concreta tensione espressiva, nella collaborazione di poetica e poesia di cui quegli studi sono funzione e strumenti di realizzazione. Non accessi privilegiati e unici che possano di per sé sostituire l’intera operazione storico-critica centrale e che invece richiedono sempre una impostazione unitaria ed organica capace di ovviare ai pericoli di arbitrarietà fortemente inerenti ad esami critici che presumano di spiegare il tutto col particolare o con un semplice circolo di particolare, risolvendo questo in un etimo genericamente spirituale.

Come è notoriamente verificabile in un celebre saggio spitzeriano[4], quello sulla Phèdre di Racine, piegata, sul rilievo del récit de Théramène, ad una interpretazione inaccettabile di centralità della figura di Teseo e del suo dramma di barocco desengaño che falsa la posizione di poetica, la direzione costruttiva di quella grande tragedia impostata, dentro lo sviluppo poetico storico raciniano, come tragedia della passione di Fedra, ben collegata ai problemi dell’allievo di Port Royal e alla sua poetica di classica rappresentazione di personaggi nella loro lotta interiore, fra l’abbandono di Fedra a Venus, à sa proie attachée, e la sublime rinuncia di Bérénice nella tragedia omonima.

Né occorrerà dilungarsi sul fatto che anche i vecchi studi delle «fonti» potranno risultare tutt’altro che inutili se intesi, con radicale trasformazione di funzione e metodo, a precisare la storia di un poeta, la formazione e sviluppo della sua poetica, a incarnare la realtà del suo dialogo con altri poeti e con la tradizione, mai prescindendo però dalle ragioni interne che motivano a vario livello quel dialogo e lo graduano e lo articolano in un processo unitario e complesso, non solamente letterario e stilistico.

È possibile – per tornare un’ultima volta sull’esempio alfieriano[5] che ci ha sorretto in questo capitolo – comprendere la sua formazione giovanile solo come apprendistato stilistico, rifiutando l’attenzione alle vitali e culturali ragioni che lo condussero all’attività artistica e alimentarono la sua attenzione alle forme narrative e satiriche del romanzo settecentesco, e risolvere il significato dei suoi «giornali» francesi in un esercizio di stile senza percepire in questo l’urgenza della sua crisi formativa? Voglio dire che il centro rimane sempre la personalità poetico-storica e che gli studi di fonti, di formazione letteraria, di apprendistato stilistico, van sempre ricondotti, per esser validi, alla poetica e alla storia intera del poeta.

Ma, in una prospettiva radicalmente fedele alla centralità del poeta nei suoi nessi ed incontri (senza dei quali non potremmo neppure immaginarci la sua realtà personale e poetica, il sinolo personale-storico della sua poesia), lo studio della poetica di un autore, che introduce e sorregge continuamente la nostra comprensione e spiegazione della sua poesia, include, per propria necessità, quello dei suoi incontri e delle sue esperienze letterarie, del suo dialogo con altri autori. E cosí i vecchi studi delle fonti, o i nuovi studi della formazione letteraria, che molto spesso rischiano di ricadere nel vecchio schema, prendono un diverso valore e una diversa destinazione e una diversa radicale direzione.

Non si tratta certo piú di risalire all’immagine poetica attraverso la somma e l’addentellato di situazioni e immagini precedenti (il caso estremo della figura del Sacripante ariostesco pensoso e dolente sulla riva del fiume e delle dodici situazioni simili ritrovate dal Rajna nei poemi romanzi[6]) o, tanto meno, di sfrondare lauri poetici per l’identificazione di materiali utilizzati da un poeta per la sua creazione, nella confusione fra «invenzione» materiale e invenzione poetica tipica dello stesso grande lavoro erudito del Rajna. Si tratta, come io stesso ho fatto piú volte, nel caso del Foscolo ortisiano e del Socrate delirante del Wieland[7] o nel caso del Leopardi[8], di cui recentemente ho ricostruito i rapporti con la poesia del secondo Settecento, di considerare, nel loro giusto valore, esperienze di lettura, incontri sollecitanti a vario livello di incidenza, in ciò che esse hanno offerto concretamente al poeta nella sua formazione e nel suo sviluppo, come parte cioè della sua storia a cui insieme appartengono le occasioni vitali, gli incontri con persone vive, le reazioni alla storia del proprio tempo, le interpretazioni e il sentimento della propria situazione sociale, politica, culturale.

Per Foscolo la lettura dell’operetta wielandiana era cosí non solo la possibilità di utilizzarne una pagina patetica e uno schema figurativo ironico in precise situazioni dell’Ortis, ma la sollecitazione ad acuire toni ironico-polemici sulla base di quella lettura illuministico-rococò, a sviluppare motivi della sua diagnosi dei ricchi e dei filistei o motivi idealizzanti sul tema dell’anima bella e della naturale schiettezza dei sentimenti, tutti legati allo sviluppo della sua complessa denuncia e protesta storica ed esistenziale e ai suoi impegni di costruzione narrativa, bisognosa dell’appoggio della tradizione romanzesca settecentesca europea.

Per Leopardi, mentre la lettura ed esperienza di testi come le Notti younghiane o gli idilli gessneriani o i canti ossianeschi si inseriva nella formazione stessa dei suoi temi idillico-elegiaci e li appoggiava anche espressivamente su di un linguaggio, su moduli già avviati dalla letteratura preromantica, altre esperienze (quella del Parini o del Monti) rispondevano piú direttamente ad esigenze tecniche e retoriche, ma non mai senza qualche elemento di consonanza e di sollecitazione piú interna: la moralità pariniana, il classicismo nazionale del Monti o la sua mediazione piú scenografica e melodica di elementi wertheriani sulla via sentimentale del Sogno o del Consalvo. E un incontro come quello alfieriano si immetteva potentemente (insieme all’esperienza del primo amore, al dialogo con il Giordani, nel decisivo ’17) in un momento fondamentale dello svolgimento della personalità leopardiana rinforzandone la spinta eroica, la disperata volontà di intervento, il senso alto delle illusioni, la tensione all’infinito, riverberandosi nella violenza del linguaggio squalificante il mondo e la scaduta realtà del presente politico e morale, fondendosi inseparabilmente con gli elementi drammatici leopardiani fino al Bruto minore e all’Ultimo canto di Saffo dove la ripresa dell’intuizione tragica alfieriana è base ideale della denuncia e protesta esistenziale leopardiana.

In modi di sollecitazione che realmente superano per intensità la stessa interessantissima giustificazione leopardiana del suo rapporto con i romanzi e col Werther e che piú tende a salvare l’originalità del proprio sentire: «A ogni modo mi sono avveduto che la lettura de’ libri non ha veramente prodotto in me né affetti o sentimenti che non avessi, né anche verun effetto di questi, che senza esse letture non avesse dovuto nascer da sé: ma pure gli ha accelerati, e fatti sviluppare piú presto, in somma sapendo io dove quel tale affetto moto sentimento ch’io provava, doveva andare a finire, quantunque lasciassi intieramente fare alla natura, nondimeno trovando la strada come aperta, correvo per quella piú speditamente. Per esempio nell’amore la disperazione mi portava piú volte a desiderar vivamente di uccidermi: mi ci avrebbe portato senza dubbio da sé, ed io sentivo che quel desiderio veniva dal cuore ed era nativo e mio proprio non tolto in prestito, ma egualmente mi parea di sentire che quello mi sorgea cosí tosto perché dalla lettura recente del Werther, sapevo che quel genere di amore ec. finiva cosí, in somma la disperazione mi portava là, ma s’io fossi stato nuovo in queste cose, non mi sarebbe venuto in mente quel desiderio cosí presto, dovendolo io come inventare, laddove (non ostante ch’io fuggissi quanto mai si può dire ogni imitazione ec.) me lo trovava già inventato»[9]. Dove, nello sforzo lucido, ma un po’ contorto del Leopardi, colpisce soprattutto il rifiuto di un determinismo assoluto e la ammissione di una funzione accelerante indispensabile a fare in modo che le cose andassero come andarono. Non si trattava di qualcosa tolta in prestito, ma di una esperienza senza la quale lo svolgimento leopardiano non sarebbe stato quello che è stato.

E cosí, a meglio mostrare come lo studio della poetica e della formazione complessa di un poeta anche nella dimensione delle letture ed esperienze di altri autori sia indispensabile a capire rettamente gli stessi risultati artistici, si pensi alle canzoni patriottiche del ’18 e a come se ne debba ridurre la valutazione sol di esercitazione retorica e scolastica, come se ne debba recuperare l’accento di carica disperata che le sottende e le immette nel vivo circolo della poesia leopardiana (pur con i loro limiti effettivi e la loro parzialità), se, ferma restando la prospettiva di poetica di lirica-eloquente rafforzata nel Leopardi dal dialogo col Giordani, si risale ad esse dall’interno della situazione leopardiana di quegli anni: dalla sua tensione disperata di fronte alla propria condizione claustrale e alla decadenza politica e morale dell’Italia, dalla sollecitazione alfieriana e foscoliana (la prima canzone vuol rispondere alla celebre pagina sull’Italia della lettera da Ventimiglia dell’Ortis), dall’ansia di gloria, di azione, di amore, infiammate dal vivo esempio della Vita alfieriana e messe a nudo nel formidabile argomento secondo di un’elegia, pure del ’18. Argomento che tanto meglio ci fa intendere la spinta interna delle canzoni patriottiche e ci induce a riflettere sul fatto che il testo concluso richiede una interpretazione che ad esso risalga da ogni precedente, atto a spiegarne la genesi storico-personale: «Oggi finisco il ventesim’anno. Misero me che ho fatto? Ancora nessun fatto grande. Torpido giaccio tra le mura paterne. Ho amato τε σωλα, O mio core! ec. non ho sentito passione non mi sono agitato ec. fuorché per la morte che mi minacciava ec. Oh che fai? Pur sei grande ec. ec. ec. Sento gli urti tuoi ec. Non so che vogli, che mi spingi a cantare a fare né so che, ec. Che aspetti? Passerà la gioventú e il bollore ec. Misero ec. E come πιακερώ α τε senza grandi fatti? ec. ec. ec. O patria, o patria mia ec. che farò non posso spargere il sangue per te che non esisti piú, ec. ec. ec. che farò di grande? Come piacerò a te? in che opera per chi per qual patria spanderò i sudori i dolori il sangue mio?»[10].

D’altra parte, nella poetica di uno scrittore confluiscono tutta la sua cultura, la sua ideologia, la sua formazione intellettuale, i suoi interessi e problemi etico-politici e lo studio storico critico qui proposto richiederà sempre l’esame e la considerazione esauriente di questi elementi in una forma il piú possibile capillare e precisa, nel loro nesso, attraverso la poetica, con la poesia.

Voglio dire che va definitivamente vinta la prospettiva di chi studia il pensiero e la cultura di uno scrittore e poi dice che la poesia è un’altra cosa, che essa sfugge misteriosamente a quel rapporto. è la lotta contro il «mal grado», di cui si è recentemente parlato varie volte e che va instaurata però sempre sulle basi duttili e funzionali, antideterministiche, che permettono di ovviare al pericolo di leggere la poesia come la sua parafrasi o esposizione prosastica quando la si voglia considerare un puro e semplice documento storico.

Cosí il pensiero del Leopardi, pur configurato piú in una forma di altissimo moralismo che di pura speculazione (ma poi con quante intuizioni che superano per ardire e novità tante speculazioni di filosofi professionisti a lui contemporanei), non rimane qualcosa di chiuso in se stesso e di indifferente alla sua poesia, ma questa si alimenta di quello anche se in un intreccio che scarta la successione di un pensiero consolidato precedentemente e di una poesia che lo illustra. E cosí per Leopardi l’illuminismo, recuperato come momento attivo soprattutto nel suo ultimo periodo, non fu il «carcere» da cui Leopardi si liberava con la sua poesia, ma fu una forza per lui e per la sua poesia che, dalla forza lucida e aggressiva dell’illuminismo rivissuto in dimensioni romantiche, trasse conforto ed appoggio alla sua diagnosi attiva della situazione umana e alla sua prospettiva combattiva senza di cui la sua stessa poesia non sarebbe quella che è.

E come capire lo stesso ritmo della prosa poetica delle Operette morali senza risalire ad esso dalle posizioni che il Leopardi vi svolge con varia tensione, ma certo sul filo di problemi centrali, con una prospettiva di battaglia ideologica e culturale (che presuppone il raccordo volontario con quei «filosofi di quaranta o cinquant’anni addietro» di cui si parla nel Timandro ed Eleandro) e con un dinamismo interno che mal potrebbero essere considerati in una definizione delle Operette come «suites linguistico-musicali»[11] o come stilizzazione letteraria di posizioni già tutte acquisite e ferme?

Quel ritmo poetico nasce dalla tensione meditativo-espressiva dei problemi in progresso e dal modo coerente con cui Leopardi li vive e li afferma artisticamente in una disposizione intera che esclude la semplice considerazione documentaria o quella semplicemente stilistica delle Operette e comanda una interpretazione del loro stile in rapporto al loro movimento meditativo-fantastico.

E le ricerche recenti del Muscetta sulla cultura moderna del Belli[12] non son solo un arricchimento della sua figura di uomo di cultura, ma un modo per capire come la sua poesia non nasca solo per misteriosa o automatica reazione agli aspetti conformistici desolanti del piccolo burocrate pontificio, ma si alimenti (seppur sempre con un singolare sdoppiamento dell’uomo e dell’artista grande, e mediocre nel suo sonettismo da Accademia romana da meglio spiegare) di una cultura e di un atteggiamento critico e polemico avvalorato da letture e da scelte ben sintomatiche e formative.

Né la polemica svolta da me sui casi del rapporto fra il poeta e la storia esclude la necessità di quel rapporto, necessità presente in tutte le parti del mio discorso. E dev’essere ancor piú chiaro che il rifiuto di soluzioni per me semplicistiche riprospetta solo il problema in una forma piú sicura e sicuramente storico-critica.


1 Mi servo naturalmente dell’edizione critica del Filippo curata da C. Jannaco, Asti 1952.

2 In appoggio alle osservazioni seguenti sull’Alfieri cito qui i miei vari studi alfieriani: Vita interiore dell’Alfieri, Cappelli, Bologna, 1942; Le lettere dell’Alfieri, in Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento cit.; La rivoluzione alfieriana, nel Preromanticismo italiano cit.; Lettura della «Mirra», in Carducci e altri saggi cit.; La prima parte delle «Rime» alfieriane, «La Rassegna della letteratura italiana», 1, 1961; Lettura del «Saul», in Miscellanea in onore di F. Flora, Milano 1963; La «Merope» dell’Alfieri, in Miscellanea in onore di C. Pellegrini, Torino 1963, e le schede alfieriane della mia rivista (alcune raccolte in Classicismo e neoclassicismo nella letteratura del Settecento cit.). Ora si veda il volume Saggi alfieriani, La Nuova Italia, Firenze, 1969 (che raccoglie molti dei saggi sopra citati e altri saggi) e il capitolo alfieriano nel Settecento letterario cit.

3 U. Foscolo, Discorso sul testo del poema di Dante, in Opere, III, p. 123.

4 L. Spitzer, Critica stilistica e storia del linguaggio, Bari 1954. Cfr. in proposito le precise obbiezioni di M. Fubini in Critica e poesia, Bari 1956, pp. 508, ss.

5 Cfr. E. Raimondi, La giovinezza letteraria dell’Alfieri. Dalla prosa francese ai primi esercizi italiani, Bologna 1953, e la mia scheda relativa riportata in Classicismo e neoclassicismo nella letteratura del Settecento cit.

6 P. Rajna, Le fonti dell’«Orlando Furioso», Firenze 1990, pp. 67 e ss.

7 Rimando in proposito al mio saggio Il «Socrate delirante» del Wieland e l’«Ortis» cit.

8 Leopardi e la poesia del secondo Settecento cit.

9 Zibaldone, in G. Leopardi, Tutte le opere cit. II, p. 42.

10 G. Leopardi, Tutte le opere cit., I, pp. 330-331.

11 È una definizione del Bigi (Tono e stile delle «Operette morali», in Dal Petrarca al Leopardi, Ricciardi, Milano-Napoli, 1954) che perde di vista la ricchezza interna della prosa poetica delle Operette cosí sostanzialmente sentita e fatta valere dal Fubini nel suo essenziale commento (Firenze 1933). Mentre il Luporini, che pur cercò di utilizzare i Canti nel suo studio citato, escluse dalla propria attenzione le Operette morali, troppo facilmente accettando la loro interpretazione come «stilizzazione letteraria» (cfr. op. cit., p. 221, in nota) di posizioni sol precedenti e addirittura di «passi indietro» rispetto alle formulazioni dello Zibaldone.

12 C. Muscetta, Cultura e poesia di G.G. Belli, Milano 1961.